Dicono di Lina

Bibliografia Essenziale

Autoritrattazioni, catalogo della mostra,
a cura di S. Viani,
Venezia 1982

Sodobni beneski umetniki, catalogo della mostra,
a cura di V. Basaglia,
Lubiana 1984

Junge venezianische Zeichner, catalogo della mostra,
Galerie im Komhaus,
Norimberga 1984

I prossimi venturi, catalogo della mostra,
a cura di G. Pauletto,
Portogruaro 1984

A come… Amore, catalogo della mostra,
a cura di P. Pennisi e R. Pesenti,
Venezia 1985

Aspetti della ricerca artistica giovanile a Palermo e Venezia,
catalogo della mostra,
a cura di R. Perusini e T. Toniato,
Palermo 1987

Pittori & Pittori, catalogo della mostra,
a cura di T. Toniato, Venezia,
Fondazione Bevilacqua La Masa,
Milano 1988

Idrargirii Stellari, catalogo della mostra,
a cura di R. Gherlenda,
Oderzo 1989

I doni di Alcippe, catalogo della mostra,
a cura di L. Bortolatto, Lions club “Castelvecchio”,
Mestre 1989

IV Biennale Donna 90, catalogo della mostra,
a cura di M. Vescovo, Ferrara, Palazzo dei Diamanti
Ferrara 1990

La rosa è una rosa, è una rosa, catalogo della mostra,
a cura di S. Weller, Circolo della rosa,
Roma 1992

Ville, palazzi, muse di pietra, catalogo della mostra,
a cura di L. Bortolatto, G.S. Edizioni
Asolo 1992

Goffredo Parise tra Vicenza e il mondo, catalogo della mostra,
a cura di F. Bandini, G. Fioroni, V. Scheiwiller, Libri Scheiwiller,
Milano 1995

Peasants Wake for Fellini’s Casanova and other poems,
A. Zanzotto, University of Illinois Press
Chicago 1997

 

È presente nell’enciclopedia
La pittura italiana – il Novecento,
Electa, Milano 1993

Hanno scritto sul suo lavoro

Maria Grazia Abate, Antonella Alban, Giorgio Baldo, Luigina Bortolatto, Corrado Castellani, Stefano Cecchetto, Guido Ceronetti, Robero Costella, Erri De Luca, Giosetta Fioroni, Amalia Forcina, Ernesto Francalanci, Fabio Franzin, Lorena Gava, Ivano Gottardi, Vittoria Magno, Isabella Panfido, Giancarlo Pauletto, Elena Perin, Antonio Porello, Mauro Portello, Maria Grazia Torri, Gian Mario Villalta e altri.

“Un’ arte che si potrebbe definire…”

Mendacio. Trappola logica. Sgusciare via.

Qua si tratta di Lina la svagata

La dai mischiati cammini…

L’ occhio sussurra: OMNIS

DETERMINATIO (latina è Lina) EST

NEGATIO, così ricaccio

Tra i balbettii del Logos Definitore

E i genuini baratri dell’ Angelo

Determinatore la vana

L’oscena smania di definire.

Di grazia, sia Lina Sari indefinita:

Scamparla, questo voglio, dalla morgana

Che agita sepolcri di parole

Come fosse la mano plasmatrice

Là riflessa schierata candita,

Addirittura da libera creatrice

Nuvola fatta porta, in chiavi avvilita.

Battito cangiante, la ripudio manettata.

Vertigini da lei fissate, bersagli in volo.

Delle sue fionde grafiche, oggetti visionari,

Dondolii delle membra in esercizio

Sui mobili tatami della vita…

Non dirò sogni, un facile sbarcare

In un vuoto di approdi. Radiografica,

Di qualche ammasso psichico rivela

Contorni rari, e un arte del sorriso

Manipola e trasforma, per dar luogo

A un sorriso più largo, che si dona,

Papiro e altra materia. Questa è Lina,

Però soltanto un poco, forse una

Sola di tante vite in germe che indovini

Nel suo passarti accanto di affrettata.

Sarò riuscito nel mio duro intento

Di non dire di lei, di lasciar tutto

Svanire in un tenue e corto pizzicato?

Se ne avrò detto troppo, ci si passi

Sopra la scolorina.

Sul foglio vergine cada

La goccia di colore

Luminoso che è Lina.

Guido Ceronetti

[ Crumiria, Aprile 1995 ]

“Di grazia, sia Lina Sari indefinita”: così nel 1995 Guido Ceronetti aveva auspicato e sentenziato per sciogliere ogni persecuzione classificatoria, ma anche per preservare l’insaziabile sete di verità e identità di un’artista così pasolinianamente piena di grazia. Lina Sari, esteta, creatrice di forme, segni e colori, interprete di idee e sentimenti, produce opere dalla luce sublimata e dalla materia spiritualizzata in equilibrio sospeso tra veduta e visione.

L’arte di Lina resta carica di mistero poiché trasfigura e riformula il motivo celandone l’essenza. L’immagine è otticamente percepibile ma più difficilmente intellegibile perché, come quella simbolista, “riveste l’idea di una forma sensibile” (J. Moréas) implicando altro da sé. Lina tende a suggerire, ad alludere senza mai svelare ragioni e significati. E del resto non potrebbe: quei dipinti aleggiano tra la terra e il cielo, tra l’Io e il Tutto. Artista-intellettuale “cerca nell’arcana profondità dell’anima” (P. Gauguin) e perciò la sua iconografia non è risolta né risolvibile: le opere, assorte e allusive, risultano a-logiche, a-spaziali, a-temporali, inespugnabili all’assedio dell’analisi e della logica. Il suo itinerario, consapevole e vissuto, sempre teso a progredire, continua anche nell’impossibilità di raggiungere e addirittura di intravedere la meta. Ma il suo procedere è necessità perché i dipinti segnano e sono la sua vita: essi rappresentano un’aspirazione e, paradossalmente, una condanna.

Lina è stata segnata da un destino che non ha voluto né potuto contrastare: ha dovuto diventare artista per dare senso a esistenza individuale e universale, a dimensione fisica e metafisica, a sfera materiale e spirituale. E’ partita con profeti e navigatori, pellegrini ed esploratori, ha rischiato di naufragare; non ha desistito; si è avviata con Carmelo Zotti, ha intercettato l’iperuranio estetico di Mario Schifano e Giosetta Fioroni, quello poetico di Goffredo Parise e Andrea Zanzotto, di Erri De Luca e Guido Ceronetti. Infine ha trovato il suo.

Mai come oggi, Lina Sari è Lina Sari. Mai come oggi la passata “indefinizione” ammette possibilità di “definizione” e ciò non per mondo tematico, valenza espressiva o cifra stilistica, ma per forza di idee, profondità d’intento e tragitto compiuto: quindi, per i valori più alti della cultura, dell’intelletto e dello spirito di un individuo. Perciò la sua pittura è arte-vita, fondata su un autentico Io poetico ed esistenziale: una figurazione che nasce da un processo intensamente vissuto e interiorizzato che assume e seleziona, sedimenta e stratifica, fondendo realtà percepita e immaginata, traducendo parole ed emozioni, musica e atmosfere. Del resto “… tutto, forma, movimento, numero, colore, profumo, nello spirituale come nel naturale è significativo, reciproco, converso, corrispondente” (Ch. Baudelaire).

Le immagini sono Lina ma anche altro da Lina, poiché maturano esistenza autonoma in un divenire teso all’assoluto: sono porte aperte tra finito e infinito. Si generano da infrazioni e contaminazioni, da trasposizioni e sconfinamenti, si propongono come evocazioni, allusioni, simboli, costituendosi presenze arcane, magiche, epifaniche: sono icone di una contemporaneità senza tempo, uniche, esemplari e chiare nella loro insondabilità perché “ogni cosa sacra, o che voglia restare sacra, si avvolge di mistero” (S. Mallarmé).

E così è anche Lina, baciata dall’Angelo e votata alla grazia.

Cara Lina,

tu non accetti i colori della convalescenza.

I tuoi rossi attaccati da altri colori inferociti sono il dolore in corso e direttamente la salute piena, niente frattempo di cure e ristabilimenti.

I tuoi rossi stanno in pericolo, ma non vogliono cedere al nero che li assedia, non lo ammansiscono, gli resistono interi: o la pienezza della sanità o la sopraffazione.

Amo il tuo paiolo di polenta trafitto dal fulmine bianco di una lancia, amo gli animali che stanno nella periferia dei tuoi bordi.

Sono loro che permettono a noi l’ abusivo sentimento di essere centro e culmine di un disegno, di una biologia.

C’è una T che non voglio capire, sapere. C’è una T che è l’ ultima lettera nell’ alfabeto ebraico, c’è una T arredata che respingo.

Mi consola il piede scalzo che sta spingendo un salto senza sforzo e un profilo di arpa e di un uomo che stanno suonando l’ aria.

Ti ringrazio di avermi reso passante della tua fermata, non posso ricambiare che un saluto.

Un sentimento romantico è alla base della pittura di Lina Sari.

Un sentimento romantico che elabora i segni, le forme, le sensazioni, gli eventi, i temi della sua contemporaneità. Nel fare pittura un rapido accavallarsi compone le innumerevoli immagini. Sono immagini che hanno molti padri nella pittura moderna fino ai nostri giorni (…fino a Mario Schifano ispiratore apprezzante!…), ma sempre propongono un mondo fervido, intricato, stratificato di mille colori liquidi o pennellati, corposi o densi; un mondo di segni lucidi e luccicanti; un mondo di tracce, collages, impronte, forme, oggetti, fili, spaghi, poveri trucioli o preziosi rettili… che è il mondo di Lina Sari.

I suoi quadri e i suoi disegni, secondo i periodi, sono popolati da cieli fiabeschi, cani e animali liberamente inventati, paesaggi onirici gioiosi o drammatici.

Una serie felice di luoghi dell’ immaginario: stravolte leggende e sogni proibiti, giungle, efflorescenze e arabeschi colorati.

“Di grazia sia Lina Sari Indefinita”
di Mauro Portello

Non so molto dell’aria che tira oggi nella pittura italiana, su come si stanno muovendo i giovani e i meno giovani; so però che la realtà odierna è infinitamente piu complessa sul piano degli scambi di comuicazione, “leggere” e “scrivere” è molto piu difficile, i codici e i linguaggi si penetrano e si perdono gli uni negli altri, smarrendo antiche vie e inventandone di nuove ( si pensi solo ai travasi “linguistici” musica/TV o moda/morale a casa/globo). Per questo è importante andare alle mostre di pittura, per non mollare i contatti con gli artisti, con coloro che delle fusioni tra mondi sono i campioni da sempre. E questa occasione mi è stata utile, perchè grazie ad essa ho incontrato di nuovo un ragionamento in pittura, che, a mio parere, è la cosa che più sta in piedi per chiunque voglia insistere a intendere la vita in cui vive. Ma prima di tutto una premessa di metodo, per la quale, per una volta, condivido Guido Ceronetti che rifugge “L’ oscena smania di definire./ Di grazia sia LINA SARI indefinita:/ Scamparla, questo voglio, dalla morgana/ Che agita sepolcri di parole” (Lina, 1995). Con questa bussola in tasca ho provato a camminare tra i quadri dell’ ultima mostra della Sari, a Sesto al Reghena, nel salone dell’ abbazia Benedettina (2001), davvero il luogo piu adatto. Ho provato ad annusare le opere, a visitarle senza – per quanto possibile – mediazioni se non quelle della mia psicologia e mi sono fatto le idee che seguono.
Davanti a questi quadri non riesco a pensare altrimenti che all’ immagine vitale dello sgusciare di un pulcino: una personalità avviluppata in un mare di esperienza che prova, dieci-venti volte a superare la parete del mondo interiore per apparire qui tra noi e raccontare visioni e altri mondi. Come dire: una sensazione fortissima di tipo ancestrale nella quale mani, insetti, ruote, sassi, volti e kimono, pianoforti, bambini, bambine e altalene stanno sullo stesso piano e parlano tra loro col preciso scopo di intendersi, di spiegarsi. Sono le sensazioni di stare vicino a un dialogo sommerso, sotto le cose, al di qua delle cose, nell’ istante prima che esse divengano mondo compiuto e dunque concluso. I quadri: una ruota forse, o un vortice in cui i tratti e le pietre incastonate diventano “girando” massa, uno studiato processo di deviazione dalla consuetudine figurativa, un momento in cui le forme sono possibili solo nel di fuori dell’ opera, nella sua macroscopia poichè dentro, sembra suggeriscano, “c’è da vivere per venir fuori”.
Mani antiche (citazioni dei grandi) che appaiono ancora incerte di sè, sul come stare, sul che cosa dire. Corpi appena intuibili, posati su ferri asciutti (merito del bell’ allestimento di Rita Afra Lucchetta), prima di una storia, anzi, di qualsiasi storia, esseri fatti, ma ancora a venire. I prodotti umani: un pianoforte sotto gli affreschi , ma senza musica e palazzi; recipienti in quanto tali, sagome e materiali in sè. Acque e rossi indimenticabili. Ecco: una pittura filosofica, che pensa, che e in sè, prima di piegarsi al racconto della rappresentazione. Che sono se no quei due kimono, proprio eleganti, ma disposti per pensare appunto, e pensare al pensiero (come usa nella terra da cui provengono), innanzitutto.

Come non ricordare quanto Andrea Zanzotto ha scritto nel 1998 a Lina: “Tu (e non sorridere per un’ inevitabile punta d’ enfasi), ti trovi nelle vicinanze della posizione delfica, del “semàinein”, dell’ “indicare”, del “far segno”. Ti basta? No. Infatti è il non bastare mai”.

C’ è un opera che ti trafigge, una serrata succesione di otto “trattamenti” della stessa immagine, quasi fotogrammi, ma non in razionale succesione, dai colori scuri, e un volto di giovane, seriamente preso a capire, con sguardi di pacifica sorpresa o di serena malinconia, consapevoli. Quanto c’ e in quell’ opera, intitolata Rumore bianco, del romanzo omonimo di Don De Lillo? E quanto della pittura di Francis Bacon? La pittura di Lina Sari, certo stavolta decisamente maturata, è capace di dimenticare se stessa per tirarsi fuori, à la munchausen, e riprendere con il vigore di chi ha capito dove (farci) andare. Un’ autrice dalla profonda cultura (non è frequente) che senza le reti di protezione di una qualche facile rendita di posizione si assume la responsabilita di affrontare le cose, la responsabilita di ciò che ne dice,e del nome che lo dice. Mettendosi ancora in gioco completamente con autenticità e serietà, colta non per caso negli anni dalle grandi sensibilità di Ceronetti e Zanzotto, ricordati sopra, ma anche di Goffredo Parise, Giosetta Fioroni, Erri De Luca e Mario Schifano. Un viaggio intenso, questa mostra (una ottima idea del critico Roberto Costella) il cui resoconto è naturalmente limitato e parziale, il cui oggetto è una materia che lavora dentro, un discorso aperto che attende il prossimo capitolo. Un’ associazione, si perdoni se un po personale, con una cartolina-resoconto di un viaggio anch’esso evidentemente intenso, di una amico (autore di niente se non di sè) che a mia volta (autorizzato) vorrei spedire a Lina, per le assonanze sia pure lontane con il suo lavoro.

Un secco lamierino sospinto dalla brezza cava del sud, in una piazza larga bianca gesso, profilata nettamente dal blu mediterraneo di un qualche meraviglioso altrove dove andare a mente a memoria e stare… Un rumore netto piccolo morbido ricorda gli uomini che son uomini adesso… Barattolo lieve cola vola, precipita in pace, nel bianco suonare bianco del largo sud del sole.

(Marcello Dorsi, 2000)

Presentazione a voce del critico d’ Arte Maria Grazia Torri.
(In occasione della mostra personale alla Galleria Sagittaria, Pordenone, 1983)

Ho conosciuto per la prima volta Lina Sari in occasione di una presentazione veneziana di cinque artisti tenutasi a Ca’ Pesaro. Si intitolava iconologia per cinque e tra tutti Lina forse risultava la più atipica e anche la più affine alla mia sensibilità. Atipica perchè in mezzo al flusso della neopittura che caratterizzava quasi tutti gli altri, Lina era riuscita a mantenere come una forma di eremitismo, una sua coerenza pittorica e oserei dire poetica, poichè i suoi lavori non citavano altri che sè stessa, esulando dalle mode del rifare il verso agli artisti del passato o del passato prossimo. Poi ci siamo incontrate altre volte. Un pomeriggio a Verona lei mi ha detto “per una generazione come la mia la pittura non basta”. E’ una frase in cui mi riconosco. Perciò capisco lo sconfinamento brutale del linguaggio che Lina getta sulle sue tele. Capisco l’ essere, il sentirsi dannatamente prigionieri di un linguaggio e il doverlo esorcizzare a tutti i costi, al di là delle mode e delle forme. Quello che sorprende della nostra generazione è che se non siamo morti o pentiti o accasati, continuiamo a vivere, anzi a stravivere. Non si sopravvive, si stravive, perchè le prove sono state troppe, oltre il sessantotto e l’ impegno politico, sociale, la cultura femminista, gli anni di piombo. Ultimamente Lina parla di “recinto”. Può sembrare un termine gergale direttamente dedotto dal femminile, da quel retaggio che si porta dietro come molti di noi. Ma il recinto uno è anche costretto a tracciarselo a volte per motivi di difesa. Il riflusso ci ha costretti al recinto e anche se il recinto è contenuto, si rischia di smarrirsi dentro senza il filo d’ Arianna.
Il recinto è la negazione del mito poichè il mito è ridiventato routine, ruolo essenzialmente maschile. Poichè Lina Sari si trucca, si trucca come trucca le sue tele, per uscire fuori dal recinto. Nel recinto ci rimane invece la donna oca, la pin up, la donna civetta o forse anche la donna muta, quella che non può più parlare, a cui è stata tolta la parola, però dipinge.
Il fatto che Lina rifiuti i testi critici non è forse una posizione singolare, una spia rossa ben accesa?
La parola e l’ immagine, due mondi che cozzano l’ uno contro l’ altro e non si sovrappongono perchè sovrapporli sarebbe come voler far coincidere il maschile e il femminile, che non coincidono mai anche quando si incontrano. Lina stessa mi ha rivelato che il suo è un gioco di travestimento, un gioco di rapporti con l’ immagine e il simbolo, perciò è storia di una solitudine: “La seduzione, dice Baudrillard, è qualcosa che sottrae il discorso dal suo senso e lo svia dalla sua verità perchè tutte le apparenze si alleano e congiurano per combattere il senso, intenzionale o no, trasformandolo in un gioco, in una altra regola del gioco, questa volta arbitraria, e in un altro rituale inafferrabile, più avventuroso e più seducente della linea direttrice del senso.” Perciò spesso le immagini divengono rabbia, rabbia raffreddata dalla cera che è un pò come il senso del dovere, quello di cui Lina si sente investita. Cioè un’ altra regola stavolta per “stare al gioco”, perchè la donna-segno vive la propia nudità come violenza contro se stessa e contro gli altri. Questo fino agli ultimi lavori dove la forma della pittura prevale, la solitudine che era lo scontro tra l’ apparenza e il discorso diviene “aggressiva volontà di colloquio con se stessa”.
Ora l’ artista non trova rifugio nelle scatole-luoghi della memoria. La scatola si è aperta, e uscito fuori il contenuto. Ho visto queste scatole di Lina, contenitori di vita e recinti, reinvenzioni della realtà, esorcismi più forti degli altri, praticati per scopi di difesa.
Mentre adesso la collera femminile, invece che lacerare ricama, lavora a maglia, compone, trucca, incipria, dipinge e pensa per tutto un giorno a un vestito, a una accessorio, a un nuovo e altro strumento di seduzione e crea una nuova immagine: altri oggetti per altre donne, trappole per lo sguardo da indossare magari il giorno dopo, per l’ ora della festa quando il gioco ricomincia.

Ornare la ferita del tempo

Nella Nona delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin leggiamo:
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi; destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta. C’è stato un tempo non lontanissimo in cui questo passo era tra i più citati nella riflessione filosofica e poetica che incontravamo nelle nostre letture. La tempesta del progresso poteva ancora apparire, nonostante tutto, portatrice di una forza messianica. L’angelo vede solo il passato, che è, tutto insieme, “una sola catastrofe”, ma la potenza che lo sospinge verso il futuro, “impigliata nelle sue ali”, e che gli impedisce di richiuderle, di fermarsi, quindi, e adoperarsi a redimere il passato, “spira dal paradiso”.
Nonostante tutto, in un tempo non lontanissimo, si poteva ancora discutere su questo passo, ci si ragionava, anche per dare voce all’impossibilità di aderire a questa visione. Un’impossibilità sentita come propria storia, esperienza inappropriabile dello stare al mondo, ma allo stesso tempo impropria fiducia nell’origine segreta del suo movimento. Ancora nel 1958, il drammaturgo tedesco Heiner Müller, poteva giocare su una riscrittura che metteva in scena la catastrofe di questa impossibilità, ma in questa catastrofe poteva ancora credere. Così il suo Angelo senza fortuna: “Dietro a lui un’alluvione di passato depone detriti su ali e spalle, con un rumore come di tamburi sepolti, mentre davanti a lui s’ingorga il futuro, gli schiaccia gli occhi facendoli esplodere come astri, muta la parola in bavaglio sonoro, lo soffoca col suo stesso respiro. Per qualche tempo lo si vede ancora battere le ali, si sente nel fruscio la caduta dei massi – sporadica al suo rallentare – davanti sopra dietro a lui, più forte quanto più veemente è l’inutile movimento. Poi su di lui si chiude l’attimo: nello spiazzo subito sepolto, l’angelo senza fortuna si arresta, attendendo la storia nella pietrificazione di volo sguardo respiro. Fino a che il nuovo fruscio di ali possenti non si trasmette alla pietra, onda per onda, annunciandone il volo”.

E’ grande la tentazione di commentare la relazione di significato tra i due testi, frase per frase. Ma il tempo aumenta la sua velocità, la storia incalza l’esistenza, viene il 1989 e la caduta del muro, la fine della DDR, Heiner Müller scrive una nuova versione dell’ Angelo senza fortuna, di pochi versi:
“Tra città e città/ Dopo il muro l’abisso/ Vento sulle spalle la mano/ Estranea sulla carne solitaria/ L’angelo lo sento ancora/ Ma non ha più altra faccia che/ La tua che non conosco”. Due anni prima, nel 1987, ispirandosi a Rainer Maria Rilke e con l’aiuto di due dialoghi scritti da Peter Handke, Wim Wenders aveva realizzato Il cielo sopra Berlino. Nel film viene prediletta, tra le tematiche delle Duinesi di Rilke, “l’irrevocabilità” dell’esperienza umana, interpretata come lancinante attrazione degli angeli per il desiderio, innestato nell’effimera appartenenza al tempo, che è proprio degli esseri umani, anche nell’infelicità. Quel desiderio che genera dolore, che è come una ferita in ogni istante del tempo, ma radica nel tempo l’esistenza umana e fiorisce nell’esperienza in una forma che agli angeli non è concessa. Un desiderio che però intacca la memoria, e insidia il compito di questi angeli, mandati sulla terra per conservare testimonianza delle vite umane. Gli angeli dovrebbero solo guardare e ricordare, ma l’esperienza umana che si fa “lode” del mondo, attraverso il desiderio, fa vedere all’angelo le cose, nella luce di questa lode, con infinita nostalgia per ciò che abita, nel suo essere umanamente effimero, il cuore segreto del tempo. “Dire le cose” nella forma della lode è dire all’angelo l’appartenenza al tempo, il godimento del tempo, che è la vita, anche quando la vita stessa è segnata dal dolore. Questo “godimento del tempo” è radicato nella facoltà dell’immaginare che il desiderio raccoglie nella parola, sempre sospesa al respiro, sempre legata al qui e ora delle “cose” che si fanno immagine e che è nostro compito dire, “per questo siamo qui”, scrive Rilke, per dire, ed è per questo che noi esseri umani siamo”i più effimeri”. La felicità è per noi appartenere a quell’istante che si fa immagine e respiro. Non una conquista dell’istante, un’appropriazione, ma un abbandonarsi, scrive Rilke: “A noi che pensiamo la felicità come un’ ascesa/ l’emozione, quasi sconcertante, la sorpresa/ di quando cosa ch’ è felice cade”.

Ecco che a questo punto, rievocato l’appello profondo della “lode” rilkiana, il senso dell’immagine che si fa respiro nel dire, è necessario per˜ ripetere la seconda versione dell’ Angelo senza fortuna di Rainer Müller, sullo sfondo di quella stessa città popolata dagli angeli di Wenders, due anni dopo, non più divisa dal muro – argine e simbolo – della storia: “Tra città e città/ Dopo il muro l’abisso/ Vento sulle spalle la mano/ Estranea sulla carne solitaria/ L’angelo lo sento ancora/ Ma non ha più altra faccia che/ La tua che non conosco”. L’angelo è ancora udito (lo sento: ich höre, se ne sente la voce o si sente nella voce, nel respiro) e si presenta oramai soltanto con il viso di qualcuno, tu, l’altro a cui mi rivolgo. Ma è un viso che resta sconosciuto. “L’angelo della storia” ha lasciato oramai soltanto una traccia nel dire, o forse soltanto nel sospirare, nel respiro di un essere umano che è viso, epifania irriducibile di un’alterità alla quale non posso sottrarmi, ma che non riesco a conoscere veramente.

Chiedo perdono a Lina Sari, e a ogni altro lettore, per questa lunga premessa. Non intendo affermare, inoltre, che l’intreccio di questi richiami corrisponde al pensiero che ha accompagnato il gesto creativo dell’artista: sono state le opere e il titolo della mostra a suggerirmi di rievocare il difficile destino che lega l’angelo della storia agli angeli della poesia e dell’arte fino all’attuale deserto gremito di parole e di immagini, dove i nuovi quartieri commerciali mostrano già nel giorno della loro inaugurazione di obbedire a un’estetica delle macerie. Mi interessava tracciare con pochi titoli i confini di un incontro con una serie di lavori coerente e, per me, di forte impatto emozionale e evocativo. Ciò che prevale, trascorrendo da una all’altra di queste opere, è l’ammirazione per la loro capacità di chiamare alla memoria e al sentire un vivo contrasto di pensieri e di affetti, una mirata interrogazione di quanto ci è piacevole e noto accanto a ciò che sollecita l’aspetto doloroso dell’esistenza, il suo lato oscuro e inattingibile. Provo a dire quello che accade, guardando e riguardando, per quanto riesco a capire, senza fingermi esperto di cose d’arte. La confidenza di Lina Sari con le più diverse tecniche artistiche dell’immagine è nota, come è nota, mi pare, la sua vocazione “letteraria”. Il termine “letterario” è ambiguo per il giudizio anche in letteratura, figuriamoci nell’arte, perchè da un lato indica un rapporto complesso con la parola e il pensiero, d’altro lato può designare però l’esibizione di un gesto mediato attraverso il pensiero e la parola di altri, un certo elemento, diciamo, parassitario o addirittura inautentico. La prima considerazione che ho raccolto, guardando e riguardando quello che avevo davanti agli occhi, è stata la libertà del gesto artistico rispetto al dato letterario, la sorprendente autonomia della sua elaborazione. Per questo sono stato obbligato a cercare – nella tematica angelologica, così frequente, e a volte pletorica, nelle arti contempranee – un ordine di riferimenti più stringente, a mia volta personale, che mi impegnasse, coinvolgendomi, in una interpretazione. E credo ciò sia importante, perchè ci porta a dire che la componente letteraria, a questo punto dell’evoluzione dell’artista, è oramai connaturata al suo fare e brucia ogni elemento seduttivo per diventare necessità nel gesto della creazione.

Sarebbe sufficiente, per me, che ci si comprendesse su questi pochi termini: non c’ è seduttività, c’ è seduzione; non c’ è decorazione, c’ è ornamento. Non sa rinunciare, Lina Sari, nè credo lo voglia, all’emozione immediata di un colore, di un segno, della bellezza clamorosa che provoca e cattura. La coscienza del dolore, l’esperienza dell’oscurità sono in lei profonde. Allora “orna” le ferite che alla bellezza sono a ogni istante inferte. Le orna nel modo più “bello”, sfacciato e catturante, con merletti e maquillage, con ori e ricami. Ma il suo ornamento segreto e ammaliante è quello della forma, dove il gesto accarezza la ferita, non può fare altro che conoscerla e rivelarla. Dove la bellezza, sfigurata, si rivela nella forma di un enigma, in un tempo e uno spazio che riconosciamo accadere. Detto imprecisamente (ma precisamente chiamato a dirlo), mi sono trovato di fronte a qualcosa di nuovo e di importante nell’opera di Lina Sari, un dato enigmatico, l’evocazione di una forma che tradisce l’ irrimediabilità del mondo, l’irredimibilità del dolore, ma allo stesso tempo dichiara la “felice” appartenenza al tempo, il suo effimero godimento, la necessità impronunciabile dell’amore.

Più lancinate di una tragedia esibita e gridata, aleggia come un fantasma, aleggia forse con un’ala tarpata, oppure inferma, di sbrindellato merletto, il destino dell’incontro impossibile dell’angelo della storia e dell’angelo delle arti. Ci sono ombre, masse di una solidità informe, fondali, tagli e sbrecciamenti. C’ è il dolore, l’ignoranza di noi stessi, la banalità del male, l’ambiguità del desiderio. Ma c’ è il sottile, inquietante, enigma del nostro tempo, che ci chiede di “dire le cose”, nonostante tutto, di lodare la nostra effimera appartenenza, e ci lascia sospesi sulla soglia tra il compiacimento e l’orrore, l’opulenza e la miseria, la bellezza facile e la bruttezza irrappresentabile.

Cara Lina,

è una ardua e febbrile avventura quella che tu hai proposto, fin dalle prime manifestazioni del tuo lavoro, un’ avventura nata dal ricco silenzio d’ attesa di una bambina che percorreva ad occhi chiusi i sentieri e gli argini perdendosi nell’ introiettare i segnali del mondo esistente, senza credervi troppo, forse.

Erano suoni colori forme il cui striscio, o soffio, o lieve schiaffeggiare quasi impercettibile sono passati poi, quasi per forza propria, nella tua elaborazione pittorica. Attraverso lo scorrere degli anni che erano un continuo rifiuto dell’ apprendere “da altri”, sfilava la teoria delle tue creazioni che non erano “sogni”, ma “numero” indefinibile, armonia sempre ballata quasi su un solo piede; erano attraversamenti e ritorni di trasparenze, concretezze in dissolvenza e viceversa; e, direi, sempre oltre la determinazione imposta da un titolo necessario alle singole opere.

Nel contempo ti veniva incontro, all’ opposto, l’ebrietà offerta da sempre rinnovati strumenti materici, col loro “veleno” (alla lettera) con le loro imposizioni e la loro consistenza palpabile.

Inutile resta accennare ai temi che più ti assediavano, ti aggredivano e ti vivevano dentro, cioè alla tua vita nel darsi in incontri, sogni, atti, agnizioni, disseminazioni, scomparse: ogni tema diveniva anche la metafora di se stesso, ogni punto di partenza un punto di arrivo e un “fuori tema” seduttivo e scintillante, o spettrale ed ectoplasmatico, ma in una necessaria contestualità.

Tutto ciò che hai toccato sembrava imporre un suo: “è così, sono così, eppure mi sfiori soltanto e mi fai fiorire in dimensioni che mi negano, ma che pure in ciò mi esaltano”.

Cor-rere o fingere stasi, toccare e sfuggire, affermare e smentire, combaciano o si avvicendano nell’ avidità intensa ed instancabile della tua non-ricerca, sempre percorsa da folate imprevedibili.

Ciò che affidi alla tela, allo spazio della visualità, nutre però maggiormente per questo delicato defilarsi: il “quid” ultimo, lo sappiamo anche attraverso il tuo lavoro, riesce a unire stabilità e moto, che però sono situati in un punto di continua dissimulazione.

Tu (e non sorridere per un’ inevitabile punta d’ enfasi) ti trovi nelle vicinanze della posizione delfica, del “semàinein”, dell’ “indicare” del “far segno alludere”.

Ti basta? No. Infatti è il non bastare mai.